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Caso Pifferi, il pm: “Psicologa inserì prima i punteggi nel test per farle ottenere la perizia psichiatrica”

Pubblicato: 26/03/2024 15:34

Le due psicologhe del caso Pifferi sono state convocate dal pm Francesco De Tommasi per un interrogatorio, il 4 aprile. Le due professioniste rispondono di falso e favoreggiamento, perché avrebbero attestato falsamente un quoziente intellettivo di 40 punti per Alessia Pifferi, la donna sotto processo per avere lasciato morire di stenti la figlia Diana, a Milano. Sotto accusa una relazione delle psicologhe datata 3 maggio 2023 usando il test Wais, che per il pm non sarebbe stato da somministrare a Pifferi in quanto soggetto “non a rischio di atti anti-conservativi” e “si presentava lucida, orientata nel tempo e nello spazio”, nonché “nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali”.

Una alterna il lavoro all’Asst Santi Paolo e Carlo alle ore di servizio nella casa circondariale, l’altra è esterna al carcere ma lavora per la stessa azienda sanitaria della collega. Gli indagati, in totale sono 5: oltre alle 4 psicologhe che avrebbero manipolato Alessia Pifferi per farle ottenere la perizia psichiatrica, c’è anche Alessia Pontenani, la sua avvocata.
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Di cosa sono accusate le due psicologhe

In pratica, come è noto, le due psicologhe sono accusate di avere creato le condizioni per tentare di giustificare la somministrazione del test e fornire alla donna una base che le permettesse di chiedere e ottenere una perizia psichiatrica, che avrebbe potuto portarla all’impunibilità. E non è tutto: il pm contesta alle psicologhe anche di avere predisposto i protocolli “con punteggi già inseriti” prima del 3 maggio 2023, cioè prima di somministrare il test a Pifferi, o di avere modificato “la versione originaria”. Con le due professioniste è indagata anche la legale di Pifferi, Alessia Pontenani.

La psicologa che lavora tra l’Asst Santi Paolo e Carlo e San Vittore avrebbe predisposto “i relativi protocolli con i ‘punteggi già inseriti'” nella somministrazione del “test di Wais” che servì, secondo l’accusa, per segnalare un grave deficit cognitivo della 38enne e per farle ottenere la perizia psichiatrica. Perizia che, poi, nel processo in corso ha stabilito che l’imputata, quando lasciò morire di fame e di sete la figlia Diana di quasi un anno e mezzo, era capace di intendere e volere.

La psicologa avrebbe preso parte a quel test, che per il pm e i suoi consulenti non poteva essere effettuato e non aveva valenza scientifica (stesse considerazioni del perito nel processo).

E avrebbe redatto, assieme all’altra (non presente al test), la “relazione del 3 maggio 2023”. Relazione, però, “materialmente” firmata, poi, da un’altra delle due professioniste già indagate, come emerso nei mesi scorsi. Una relazione che, tra l’altro, sarebbe stata anche modificata e revisionata rispetto alla “versione originaria”, pure “‘cambiando’ alcuni grafici”.

La relazione sul test di Wais, si legge ancora negli atti, è stata firmata anche dall’altra psicologa già indagata da tempo, la quale, però, “era assente anche in occasione della somministrazione del test”. L’altra collega, poi, “senza aver partecipato alla materiale somministrazione” e basandosi “anche su quanto riferitole verbalmente” dall’altra, scrive il pm, “in ordine ai contenuti dei colloqui intrattenuti” con Pifferi “contribuiva a redigere la relazione del 3.5.2023, pure modificando e revisionando la versione originaria nonché ‘cambiando’ alcuni grafici”.

Le quattro psicologhe e l’avvocatessa avrebbero così attestato che Pifferi “aveva un quoziente intellettivo pari a 40 e quindi un deficit grave, al limite inferiore di questo livello (pertanto tra grave e gravissimo)’”. Gli esiti del test, scrive il pm, “erano incompatibili con le caratteristiche psichiche effettive della detenuta, per come emergenti anche dagli stessi colloqui intercorsi in carcere”, colloqui “anch’essi falsamente annotati nel diario clinico, con riferimento ai presupposti del ‘monitoraggio’ a cui la Pifferi veniva sottoposta, in realtà inesistenti giacché la donna non era un soggetto a rischio di atti anticonservativi”.

Due delle psicologhe, in particolare, avrebbero portato avanti una “vera e propria attività di consulenza difensiva”, mentre l’imputata era “lucida” e “determinata”. E hanno lavorato per fornire “una base documentale che le permettesse di richiedere e ottenere in giudizio, eventualmente con il filtro di un’ulteriore consulenza di parte, la tanto agognata perizia psichiatrica”.
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