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72enne muore due anni dopo aver contratto il Covid: il virus era mutato 50 volte nel suo organismo

Pubblicato: 23/04/2024 15:28

Un olandese di 72 anni è morto dopo due anni d’infezione costante al Covid. Il virus si era evoluto cinquanta volte, fino a diventare immuno-evasivo. Durata 613 giorni, si tratta dell’infezione da Covid più lunga mai documentata finora. È un caso clinico molto particolare.
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Quando ha contratto l’infezione, nel febbraio 2022, l’uomo era gravemente immunocompromesso, perché stava assumendo farmaci che riducono le difese immunitarie (immunosoppressori). Aveva infatti subito un trapianto allogenico di cellule staminali per curare una sindrome mielodisplastica-mieloproliferativa. Si tratta di una tipologia di di cancro del sangue, e altre condizioni legate alla neoplasia.

Un caso scientifico mai visto prima

Le condizioni del paziente erano complicate dallo sviluppo post-trapianto di un altro tumore, un linfoma diffuso a grandi cellule B. La sua terapia prevedeva l’assunzione dell’antitumorale rituximab, un farmaco che elimina sia le cellule B maligne sia quelle normali, quindi anche quelle che normalmente producono gli anticorpi diretti contro il coronavirus Sars-Cov-2.

In precedenza, l’uomo aveva ricevuto più dosi di vaccino contro il Covid. Ma il sistema immunitario compromesso lo aveva reso incapace di produrre una risposta anticorpale rilevabile contro il virus. Ricoverato al Centro medico dell’Università di Amsterdam, i medici hanno provato a trattare la sua infezione con anticorpi monoclonali contro Sars-Cov-2 e altri farmaci, senza tuttavia ottenere i risultati sperati.

L’infezione prolungata, secondo gli specialisti, ha portato allo sviluppo di una nuova variante immuno-evasiva altamente mutata.

La variante immuno-evasiva mutata 50 volte

Il caso sarà presentato all’ESCMID Global Congress 2024, il congresso annuale che riunisce gli esperti di microbiologia clinica e malattie infettive in programma dal 27 al 30 aprile a Barcellona, in Spagna.

Il comunicato dei medici olandesi. “Mentre i pazienti sani che contraggono l’infezione possono eliminare il virus entro un periodo di giorni o settimane, un individuo immunocompromesso può sviluppare un’infezione persistente con replicazione ed evoluzione virale prolungate, che possono determinare un aumento del numero di mutazioni nel genoma del virus”.

Il malato è deceduto nell’ottobre 2023 per una ricaduta della sua condizione ematologica dopo essere rimasto positivo al coronavirus per un totale di 613 giorni.

“I primi segni di mutazione virale erano emersi già 21 giorni dopo il trattamento con gli anticorpi monoclonali contro il coronavirus Sars-Cov-2. Più nel dettaglio, il sequenziamento del genoma, che inizialmente aveva indicato un’infezione dovuta alla variante BA.1.17 di Omicron, ha mostrato lo sviluppo di una mutazione nota come S:E340K, che conferisce al virus la resistenza al sotrovimab, cioè l’anticorpo monoclonale con cui l’uomo era stato trattato”.

Analisi successive hanno poi rivelato che il virus è arrivato ad accumulare “oltre 50 mutazioni rispetto alle varianti BA.1 contemporaneamente circolanti a livello globale, con molteplici sostituzioni di aminoacidi, anche a livello del sito di legame del recettore ACE-2 nella proteina Spike (S:L452M/K e S:Y453F) – osservano gli autori del rapporto – . Inoltre, si sono sviluppate diverse delezioni nel dominio N-terminale di Spike, indicative di fuga immunitaria”.

La necessaria sorveglianza sui pazienti immunodepressi

Gli immunodepressi, si sapeva già, sono a rischio, e “ciò evidenzia l’importanza di una stretta sorveglianza genomica in questa popolazione di pazienti” hanno aggiunto gli autori dello studio, osservando inoltre come “l’uso di pressioni immunitarie mirate, comprese terapie con anticorpi monoclonali e/o nuovi antivirali, possa promuovere ulteriormente l’emergere di varianti di fuga immunitaria”.

Nel caso di studio “non si è verificata alcuna trasmissione virale della variante altamente mutata a casi secondari”. Ciò non toglie  “la potenziale minaccia per la salute pubblica derivante dalla possibile introduzione di varianti di fuga immunitaria nella comunità”, sebbene non tutte le nuove varianti emergenti diventino nuove varianti di interesse (VOC).

“I meccanismi sottostanti, coinvolti nello sviluppo di varianti di interesse sono molto più complessi, in quanto dipendono anche da fattori nella popolazione che circonda il paziente, inclusa la prevalenza dell’immunità correlata alle cellule B e T – sottolineano gli autori dello studio – . Deve però esserci un equilibrio tra la protezione della comunità da potenziali nuove varianti e la cura dei pazienti, come una maggiore consapevolezza dei rischi potenziali combinata con la fornitura di test diagnostici accessibili precocemente ai contatti (familiari) e una puntuale sorveglianza genomica, al fine di valutare la minaccia per la salute pubblica insieme agli operatori sanitari”.