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Il viaggio inaspettato di Laura, ricercatrice bloccata dal Coronavirus in Nuova Zelanda

Pubblicato: 24/04/2020 16:26

Laura Pintore è nata e cresciuta in Sardegna, dove ha imparato fin da piccola ad amare il mare e i suoi abitanti. Questa passione si è col tempo trasformata in uno stimolante percorso di studi e lavoro. Oggi Laura ha 27 anni e si trova a metà strada del suo dottorato di ricerca all’Università di Torino. Nelle ultime settimane ha però vissuto un’avventura inaspettata: è rimasta bloccata dall’altra parte del mondo in piena pandemia da Coronavirus. La sua storia è stata ripresa da giornali e tg, attirando l’attenzione delle istituzioni e facendosi portavoce di un disagio condiviso da tanti italiani all’estero. Solo così è riuscita con fatica a tornare a casa. Noi di The Social Post le abbiamo chiesto di raccontarci la sua rocambolesca esperienza.

L’arrivo in Nuova Zelanda prima della crisi

Partiamo dall’inizio: Laura, quando sei arrivata in Nuova Zelanda e perché sei dovuta andare laggiù? In cosa consiste il tuo lavoro di ricerca? 

Sono arrivata il 28 gennaio scorso e avrei dovuto trascorrere lì tre mesi per il mio progetto di ricerca, che vede la collaborazione tra Università di Torino, Wwf Italia e Niwa (National Institute of Water and Atmospheric Research), centro di ricerca che si trova a Wellington. Il mio progetto riguarda l’impatto del rumore prodotto dal traffico nautico sulla comunicazione delle balenottere.

All’inizio dell’epidemia pensavi che la situazione sarebbe peggiorata al punto da rischiare di non rientrare a casa?

No, assolutamente. Quando son partita dall’Italia non c’erano le avvisaglie di una pandemia mondiale. Ero più che sicura di poter tornare senza intoppi il 26 aprile, data prevista del mio rientro.

La diffusione del virus

Poi il virus è arrivato anche in Italia.

Come venivano percepite dall’altra parte del mondo quelle drammatiche notizie provenienti dall’Italia? 

Non seriamente. Io ero a conoscenza della situazione in Italia essendo in continuo contatto con i miei famigliari e amici, ma lì non veniva percepita come grave, non venivo presa sul serio. Non si parlava neanche spesso del Coronavirus.

Sei stata vittima di episodi di discriminazione o aperto razzismo come è purtroppo capitato ad alcune persone di origine asiatica in Italia, additate ingiustamente come “untori” del Covid-19?

No, razzismo sicuramente no. Però qualche battuta sarcastica da parte di alcuni colleghi sì. Pensavano fossi esagerata nel raccontare la situazione, che mi preoccupassi eccessivamente. Soprattutto quando ho iniziato a dire che avremmo dovuto prendere precauzioni come guanti e mascherine a lavoro, o disinfettare le nostre scrivanie.

La ricercatrice Laura Pintore durante il lavoro sul campo: studiare delfini, balene e abitanti del mare
Tratta dall’album privato di Laura Pintore

Qual è stata la prima cosa che hai fatto quando hai capito che la situazione si stava aggravando?

Intorno a metà marzo è scattato il primo campanello d’allarme per quanto riguardava il mio volo di ritorno. Ho contattato prima l’agenzia di viaggi, e mi hanno detto che il mio volo molto probabilmente sarebbe stato cancellato (come poi è effettivamente avvenuto). A quel punto sono andata all’ambasciata per capire cosa fare.

Incubo in ambasciata: “Liquidati in 7 minuti d’orologio”

Com’è andata? Quali istruzioni ti hanno dato?

Il primo impatto con l’ambasciata è stato orrendo. Sono andata in orario di visita insieme ad altri tre italiani nella mia stessa situazione e non siamo stati ricevuti neanche in un ufficio, ma proprio lì sul pianerottolo della porta d’ingresso. Non mi hanno chiesto un documento identificativo, né la ragione per cui fossi in Nuova Zelanda. Ci hanno detto che per la questione rimpatri non avrebbero potuto esserci utili, consigliandoci di andare a consultare le Domande Frequenti sul sito web e di organizzarci autonomamente. Siamo stati liquidati in sette minuti d’orologio.

A quel punto hai deciso di rivolgerti alla stampa?

Non subito. Come consigliato dall’ambasciata sono andata a consultare il sito, dove tutto era molto ambiguo e vago. Poi ho consultato quello della Farnesina, dove, nella parte dedicata all’Oceania, la Nuova Zelanda non veniva neanche citata: c’era solo l’Australia. Inoltre, al 15 di marzo ancora non c’era il modulo da compilare per formare una lista da consegnare all’ambasciata con i nominativi di chi voleva essere rimpatriato.

La speranza arriva dai social

Ma non ti sei arresa davanti a questi primi ostacoli. Qual è stata la tua mossa successiva?

Dopo qualche giorno e dopo l’attivazione dei gruppi Facebook di volontari Gruppo di Emergenza Coronavirus – Italiani in Australia” e “Gruppo di Emergenza Coronavirus – Italiani in Nuova Zelanda, che avevano per conto loro stilato una lista, anche l’ambasciata italiana a Wellington finalmente ha creato un form per raccogliere i nomi. L’ho compilato e ho atteso. Dopo circa una settimana son stata contattata telefonicamente da un funzionario dell’ambasciata. È stato gentile, però essenzialmente si è informato della mia situazione economica e sulle condizioni di salute. Poi ha ribadito che l’ambasciata non poteva fare nulla per il biglietto cancellato né aiutarmi a tornare a casa. Dovevo comprarmi un biglietto il prima possibile perché la Farnesina non organizzava rimpatri dalla Nuova Zelanda. Mi ha perfino detto di iniziare a risparmiare, nel caso fossi stata costretta a restare fino a giugno a Wellington.

Allora hai sentito la necessità di diffondere questa storia. Anche perché hai scoperto di non essere l’unica in questa situazione.

Esatto. Mi son iscritta a tutti i gruppi sui social che ho trovato, anche per sentirmi parte di un gruppo che condividesse le mie difficoltà. Mi sentivo sola dall’altra parte del mondo, con la famiglia che non poteva fare nulla e l’ambasciata, che è l’istituzione che rappresenta casa tua all’estero, che non mi aiutava. Allora ho cercato appoggio sul web. Mi son resa conto che centinaia di persone erano in difficoltà, chiedevano consigli e non ottenevano risposte. Ho consultato gli amministratori dei gruppi Facebook, volontari che stanno facendo un lavoro enorme per puro spirito di condivisione e patriottismo. Dopodiché ho deciso di raccontare la mia storia. Non tanto perché ero io preoccupata e in difficoltà, nonostante avessi una casa, dei coinquilini, e sufficienti risorse economiche per mantenermi. Ho deciso di scrivere anche per le tante persone, di tutte le età, sia in Australia che in Nuova Zelanda, che si trovavano in una situazione molto più grave e difficile della mia.

Laura Pintore, ricercatrice 27enne, si è fatta portavoce di centinaia di italiani bloccati all'estero
Tratta dall’album privato di Laura Pintore

Laura portavoce degli italiani bloccati all’estero

Ti sei fatta portavoce di un disagio condiviso da tanti italiani.

Sì, era quella l’intenzione. Ho pensato che parlare della mia esperienza potesse rappresentare e aiutare anche quelle persone. La mia non era tanto una richiesta d’aiuto personale, quanto più un appello per centinaia di persone rimaste bloccate dall’altra parte del mondo. Soprattutto dopo aver visto che in altri Paesi, gli aerei nazionali erano stati mandati: in America, in Asia e in Africa. Quindi ancora di più ci siamo sentiti abbandonati, perché da noi non organizzavano voli di rimpatrio. Vivere lì poi richiede costi elevati, la Nuova Zelanda non è un Paese cheap.

Hai smosso mari e monti e alla fine sei riuscita a rientrare in Italia, tutto a tue spese. Sei tuttora in contatto con i nostri connazionali rimasti in Oceania?

Assolutamente sì. Dopo aver scritto la lettera che ho inviato a varie testate giornalistiche e a tutta la mia rete di contatti, la storia ha ottenuto un’ampia diffusione. Mi hanno contattato tante persone per raccontarmi la loro esperienza, le loro difficoltà e per ringraziarmi di aver alzato la voce, dando loro speranza. Dopodiché gli amministratori dei sopracitati gruppi Facebook e mi hanno fatto entrare nella loro cerchia organizzativa. Li sento tutti i giorni.

Cos’è cambiato dopo l’attenzione che hai attirato su di te con la lettera alla stampa?

Credo che abbia contribuito a smuovere l’ambasciata. Dalla mia lettera son seguite un’interpellanza parlamentare da parte del Senatore Enrico Aimi, membro della Commissione Esteri del Senato, e l’intervento della consigliera comunale di Torino Chiara Foglietta. A quel punto, l’ambasciata ha iniziato a contattarmi quotidianamente. Mi ha proposto prima i voli tedeschi, cui avevo aderito prima che venissero cancellati. Poi un volo francese del 18 aprile che, da come me l’hanno descritta, era l’ultima possibilità di rientrare a casa. Sarei potuta rimanere bloccata in Nuova Zelanda fino a giugno, forse ottobre, non si sa.

Gli attacchi degli haters sul web

Dopo aver scritto ai giornali, la tua storia ha raggiunto i tg ma soprattutto i social. Sei stata vittima degli attacchi di haters online?

Purtroppo, sì. Ho ricevuto tante critiche da sconosciuti: mi dicevano che il mio fosse egoismo puro, “stattene lì, sei l’ultimo dei nostri problemi”. Alcuni credevano che volessi un jet privato per rientrare a casa. Mi ritengo una persona caratterialmente forte, di episodi di bullismo nella mia vita ne ho avuti abbastanza. Mi son fatta la scorza, ma non è mai piacevole. Così dopo i primi 20 commenti di odio ho smesso di leggerli. Avevo già abbastanza preoccupazioni. Però questa cattiveria e negatività possono ferire profondamente l’animo di una ragazza, di un anziano, di una qualsiasi persona che si trova sola, dall’altra parte del mondo, e in difficoltà emotiva. Ci sono ancora migliaia di italiani sparsi per il mondo, lontani dalle proprie famiglie. Non hanno certo bisogno di questi commenti da parte dei propri connazionali.

2 giorni in viaggio: il ritorno a casa

Com’è stato il viaggio di rientro?

Innanzitutto, lungo: è durato 47 ore. Il volo francese partiva da Auckland, quindi ho dovuto prendere un primo volo Wellington-Auckland. Sono arrivata e ho notato centinaia di persone in attesa degli ultimi voli. File di diverse ore agli imbarchi, senza obbligo di distanza di sicurezza, senza obbligo di mascherina e guanti. Io invece li avevo perfino doppi, per tutta la durata del viaggio. Una volta imbarcati, l’aereo francese era strapieno, e il personale indossava le mascherine ma non i guanti. Su centinaia di passeggeri, forse in una trentina portavamo guanti e mascherina. Ho incontrato altri 5 italiani e fortunatamente anche loro, come me, erano ben protetti. Forse perché più consapevoli della condizione in cui si trova il nostro Paese e verso la quale andavamo incontro.

Quindi tanto in Nuova Zelanda che in Francia hai notato uno scarso rispetto delle misure di sicurezza. E in Italia? 

Arrivati a Parigi, nessuno ci ha misurato la febbre e non c’è stata attenzione per le misure anti-Covid. Anche al ritiro bagagli eravamo tutti ammassati. Invece il personale Alitalia ha misurato la temperatura a tutti prima dell’imbarco, forniva l’autocertificazione che ci sarebbe servita all’atterraggio. Sull’aereo hanno fatto rispettare le distanze tra i passeggeri e il personale Alitalia forniva mascherine e guanti a chi non l’aveva. All’aeroporto di Fiumicino ci hanno nuovamente misurato la temperatura e la polizia faceva mantenere la distanza di sicurezza. Ovviamente è stato più lungo del normale, ma mi sono sentita sicura grazie all’attenzione dimostrata dall’Italia alle regole di sicurezza. A mali estremi, estremi rimedi.

Progetti per il futuro

Ora che sei rientrata devi ovviamente osservare due settimane di quarantena. Qual è la prima cosa che farai quando finirà?

Abbracciare i miei genitori, il mio fidanzato e il mio migliore amico perché in questi tre mesi di distanza mi hanno sopportata e supportata. Non è mai facile stare lontani dai propri cari. E poi continuerò il mio lavoro. Anche se siamo in una situazione grave, siamo stanchi e frustrati, la vita va avanti. Ho intenzione di finire il dottorato il prima possibile e dedicare la mia vita alla conservazione della natura. Perché se non si ha tutela della natura, continueranno ad esserci gravi conseguenze. Sono pienamente convinta che l’espansione di questo virus sia legata anche alla noncuranza che abbiamo del nostro pianeta.

Cos’hai imparato da quest’esperienza? 

Ho imparato che bisogna sempre reagire, senza cadere troppo nello sconforto. È giusto essere preoccupati e un po’ tristi, perché una situazione del genere rattrista tutti, però bisogna reagire. Bisogna sempre andare avanti, far sentire la propria voce. Spero che la Farnesina organizzi presto i voli di rimpatrio, perché la situazione è grave, soprattutto se si è lontani dalla propria casa.

Grazie alla sua grinta, Laura è riuscita a tornare a casa. Ma tanti altri italiani sono ancora bloccati all'estero
Tratta dall’album privato di Laura Pintore
Ultimo Aggiornamento: 24/04/2020 17:27