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L’Italia ha perso il valore del collettivo: neanche la Nazionale fa gioco di squadra

Pubblicato: 24/06/2024 15:53

Sinner è n.1, ma la nazionale di calcio è imbarazzante. Cosa significa tutto ciò?     Sta sparendo il concetto stesso di collettivo, il Paese è smarrito sulle conquiste sociali, economiche, sulle sicurezze della Previdenza e del Welfare. Solo tre cose tentano di resistere, con grande difficoltà, nei piccoli centri, luoghi di senso comune e collettivo, la Chiesa, la caserma dei Carabinieri, la Posta. Tutto il resto, le forme aggregative sociali, centri di riunione, dalle case del popolo alla Coldiretti, dai circoli dove gli anziani giocano a carte, agli oratori dove i giovani giocavano a pallone, e i talenti sbocciavano sotto l’occhio degli osservatori che giravano i tanti paesi di cui è fatta l’Italia.

Il lento declino del senso del collettivo, che non è affatto solo una cosa di sinistra, è popolare e cristiana in un Paese che sentiva l’influenza di Roma Apostolica, viene da lontano. L’apice del comunitarismo delle conquiste collettive, dell’ascensore sociale, dei diritti per tutti, furono gli anni 70. La Sanità di Donat Cattin, lo Statuto dei lavoratori di Gino Giugni, le nuove Regioni, l’università come strumento di elevazione sociale per tutti, la scuola dell’obbligo, poi altre posizioni, più divisive, come il divorzio, l’aborto, l’Italia dei referendum. 

Poi tutto cominciò ad abdicare verso il frazionismo, l’esasperazione di un sentimento già forte in un Paese tutto sommato giovane, l’individualismo, un futti tutti e Dio perdona a tutti. Ed arrivò Tangentopoli, il lavacro della politica che non si è più ripresa, almeno in senso partecipato, collettivo. Nasce il leaderismo dalla morte dei partiti, che rappresentavano la forma in cui i cittadini partecipavano alla vita pubblica. I cittadini non partecipano più, vanno a malapena, sempre meno a votare, sono elettroni che girano impazziti, con piccoli nuclei di adepti intorno ad un Capo.

L’ultimo vagito della partecipazione politica fu l’elezione diretta dei Sindaci, ma quello fu anche il canto del cigno della scelta politica, a questa fu sostituita la scelta dell’uomo, forte o meno, che li doveva amministrare. Fu l’inizio delle scommesse elettorali, di qua o di là, indipendentemente dal pensiero politico e sociale. È così che siamo arrivati al Premierato. Da Rutelli a Meloni.

Il senso del collettivo è sparito oltre la politica, nel sociale, i sindacati, le associazioni datoriali sono luoghi di cooptazione di carriere personali, non guida degli interessi coniugati. Il sistema produttivo Italia si è sempre più saldato, frazionato, è vivo ma sempre più piccolo in proporzione alle sfide globali, dove un sopracciglio di Putin o Trump ti mandano a ramengo il bilancio. 

Sembra paradossale che tutto questo possa essere il pensiero scatenato da una partita di calcio, ma questo è la metafora del Paese. Anche in questo siamo molto meno collettivi, vediamo le partite in solitaria, sulle piattaforme, chiusi nelle nostre stanzette, ed al limite mandiamo un messaggio ad un interista o uno juventino, a lui per sfotterlo. La Nazionale può anche sfangarla con la Croazia, ma senza una squadra che coniughi il talento di Del Piero a quello di Totti, di Pirlo e Cannavaro, non solo non si vince, ma si è solo una lista di nomi senza cuore e amalgama, quello che voleva comprare Massimino, il mitico patron del Catania. 

L’Italia è così oggi, disgregata, senza basi comuni e necessarie differenze, un tessuto sfilacciato, una matassa aggrovigliata sui propri bisogni individuali. Quando a domande collettive si cercano e si danno risposte individuali una società muore, perché torna l’Homini lupus.

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