
Nel giro di poche settimane, con il ritorno di Donald Trump al centro della scena politica americana, si è verificato un rovesciamento senza precedenti delle dinamiche politiche europee. Gli sovranisti, un tempo paladini della chiusura nazionale, si stanno aprendo a un’inedita forma di globalismo atlantico, ispirata direttamente al modello trumpiano. Al contrario, i moderati tecnocratici, con in testa il Partito Popolare Europeo, si stanno ricompattando attorno a una nuova forma di sovranismo europeo, deciso a rafforzare l’Unione come soggetto politico e strategico indipendente.
A fare da epicentro di questa trasformazione è stata Madrid, dove si è tenuto il summit dei Patrioti per l’Europa. Da Marine Le Pen a Viktor Orbán, da Matteo Salvini a Santiago Abascal, l’intero fronte della destra radicale ha salutato Trump come un alleato naturale. Salvini ha parlato apertamente di “opportunità storica”, evocando una linea comune tra Stati Uniti e Europa nel nome della “vera sovranità”. Il paradosso è evidente: per i sovranisti europei, oggi la sovranità passa da Washington, non più da Bruxelles.

Ma è sul fronte moderato che si assiste al cambiamento più profondo. La Germania, guida storica del Partito Popolare Europeo, ha rotto ogni ambiguità. Il leader della CDU, Friedrich Merz, ha dichiarato in modo netto che l’Europa non può più permettersi di dipendere dalla volontà degli Stati Uniti. Di fronte a un possibile disimpegno americano dalla NATO — ventilato da Trump con parole brutali —, Merz ha rilanciato la necessità di una difesa europea autonoma, un esercito comune e una politica estera capace di parlare con una sola voce. In gioco, ha sottolineato, c’è la sopravvivenza stessa dell’Europa come attore geopolitico.
In tutto questo, non si può non citare l’attivismo di Emmanuel Macron, che da tempo insiste sulla costruzione di una sovranità strategica europea, e che ora appare come uno dei pochi leader ad aver previsto — e preparato — la crisi di dipendenza da Washington. Macron, dopo anni di discorsi inascoltati sul “pilastro europeo della difesa”, ha colto l’occasione del ritorno di Trump per rilanciare una visione assertiva dell’Europa, capace di agire nel mondo come una potenza autonoma. La sua insistenza su una “Europa che protegge” non appare più come una formula retorica, ma come un’urgenza geopolitica condivisa, anche dai partner più riluttanti.
A confermare questa accelerazione, la nascita del gruppo Weimar+ — che riunisce Francia, Germania, Polonia, Regno Unito, Spagna, Italia e la Commissione Europea — rappresenta il tentativo più concreto di dare forma a una regia strategica comune. Non più un’Europa che subisce, ma un’Europa che si posiziona. Un’Europa che prende atto che l’era della delega agli Stati Uniti è finita.
Così, mentre i sovranisti europei inseguono Trump, i moderati si scoprono sovranisti. La contraddizione è solo apparente: la posta in gioco non è più la dicotomia tra apertura e chiusura, ma tra dipendenza e autodeterminazione. E in questa nuova geografia politica, l’Europa sta imparando che la vera sovranità non si rivendica urlando, ma costruendo potere.