
Le dichiarazioni di Robert F. Kennedy Jr. sull’autismo non sono solo inaccurate: sono pericolose. Etichettare l’autismo come una “malattia prevenibile” e descrivere in modo così stereotipato e riduttivo le persone nello spettro autistico, significa ignorare decenni di ricerca scientifica, e alimentare uno stigma sociale che tanti attivisti e famiglie stanno cercando di abbattere con fatica.
Il segretario alla Salute degli Stati Uniti ha sostenuto, senza evidenze scientifiche, che il drammatico aumento dei casi di autismo sarebbe dovuto a “tossine ambientali”, citando pesticidi, muffe, ultrasuoni, additivi alimentari e persino l’obesità. Nessuno di questi fattori, ad oggi, è stato individuato dalla comunità scientifica come causa certa dell’autismo. Anzi, il consenso scientifico si orienta da anni su una combinazione di fattori genetici e ambientali, con un peso predominante dei primi. Come ha ricordato Alison Singer, presidente dell’Autism Science Foundation, esistono varianti genetiche che da sole possono spiegare il disturbo in una parte significativa dei casi.
Ma più che la crociata antiscientifica, è il linguaggio ad allarmare.
Kennedy ha affermato che molti bambini autistici “non useranno mai una toilette da soli, non pagheranno le tasse, non scriveranno poesie, non andranno a un appuntamento”. Un ritratto disumanizzante, che cancella la varietà delle esperienze e dei percorsi possibili per chi vive con l’autismo. La reazione è stata immediata: sui social, centinaia di persone nello spettro (e le loro famiglie) hanno pubblicato foto che li ritraggono al lavoro, sui campi da baseball, con lauree, contratti, amori. La realtà, insomma, è molto diversa da quella tratteggiata con superficialità e paternalismo.
Come ha giustamente osservato il virologo Roberto Burioni, è grave che un rappresentante istituzionale di quel livello mostri una tale ignoranza su un tema tanto delicato. E ancora più grave è il danno che può provocare, in termini di politiche pubbliche, percezione sociale e inclusione.
L’autismo non è una malattia da “prevenire” come se si trattasse di un contagio. È una condizione neurologica, con caratteristiche diverse da persona a persona, e richiede accoglienza, supporto, accesso all’istruzione, al lavoro e all’autonomia. Insistere su una narrazione che riduce le persone autistiche a “inutili” o “a carico dello Stato” è disumano. E, francamente, reazionario.
Quello che davvero “distrugge le famiglie” non è l’autismo, ma l’isolamento, la mancanza di servizi, di tutele, di conoscenza e comprensione sociale. I fondi pubblici andrebbero usati per potenziare diagnosi precoci, percorsi terapeutici e scolastici inclusivi, accessi al lavoro. Non per alimentare nuove crociate su “tossine invisibili” o incubi pseudoscientifici.
Le parole di Kennedy sembrano, più che un piano per la salute pubblica, una manovra ideologica. E dietro l’ossessione per l’ambiente come unica causa, si nasconde la volontà di rimuovere la diversità, e di riportare tutto in una norma rigida, omologante e abilista.
Il mondo dell’autismo non è un blocco unico. Ma è certo che chi lo vive, lo conosce, lo accompagna ogni giorno, merita rispetto e voce. E non può essere ancora una volta il bersaglio di visioni ottocentesche travestite da strategia sanitaria.