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È morta la bambina prodigio del cinema indipendente: “Si è curata da sola”

Pubblicato: 22/04/2025 20:43

Si può provare a guarire da soli. Si può pensare che basti scrivere, disegnare, camminare nel bosco, lasciarsi accarezzare dal sole d’aprile. Si può dire agli altri che va tutto bene, che ce la si farà, che certe ferite fanno parte della vita, e che il dolore, prima o poi, smette di bruciare. E si può anche convincere chi ti ama che stai davvero meglio, che stai tornando.

Così si impara a raccontarsi la salvezza come se fosse già avvenuta. Si costruiscono rifugi nella mente, si stringono tra le mani disegni e parole come fossero medaglie. Ma il corpo, quel corpo silenzioso e paziente, a volte non ce la fa più. Non basta la forza di volontà. Non bastano le mappe emotive disegnate di notte. E si muore, anche così: lentamente, in silenzio, mentre gli altri pensano che tu stia guarendo.

Una giovane attrice cresciuta sul set

Si è spenta a 24 anni Sophie Nyweide, attrice americana diventata nota da giovanissima nel panorama del cinema indipendente internazionale. Era nata l’8 luglio del 2000 a Burlington, nel Vermont, e la sua morte è avvenuta il 14 aprile scorso a Manchester, sempre nel suo stato d’origine. A confermare la notizia è stata la famiglia, con un necrologio riportato da Variety e The Hollywood Reporter.

Il suo volto è legato soprattutto al film “Mammoth” (2009), dramma in lingua inglese del regista svedese Lukas Moodysson, in cui interpretava Jackie, la figlia dei personaggi di Michelle Williams e Gael García Bernal, una bambina trascurata dai genitori e accudita da una baby sitter filippina. Un ruolo delicato e centrale, che la portò a calcare anche il red carpet del Festival di Berlino.

Una carriera precoce tra cinema d’autore e grandi registi

Nyweide aveva cominciato a recitare giovanissima, con una serie di apparizioni in produzioni di pregio: in “Il matrimonio di mia sorella” (2007) di Noah Baumbach, in “La teoria delle ombre” (2010) con James Franco, in “I numeri dell’amore” (2010) accanto a Jessica Alba, fino a un piccolo ruolo in “Noah” (2014) di Darren Aronofsky con Russell Crowe. Il suo amore per il cinema era nato in una sala ormai chiusa, il Village Picture Shows di Manchester, acquistato nel 2003 dalla madre Shelly Gibson, ex attrice.

Le parole della famiglia: «Si è curata da sola»

Il tono del messaggio della famiglia, reso pubblico insieme alla notizia della scomparsa, è di un dolore profondo e consapevole. «Sophie era una ragazza gentile e fiduciosa. Scriveva e disegnava voracemente, e molta della sua arte rifletteva il dolore che portava dentro». Le sue opere, si legge ancora, rappresentavano «tabelle di marcia delle sue lotte e dei suoi traumi».

Nonostante le diagnosi, le rivelazioni, l’aiuto di terapeuti e persone vicine, «i loro sforzi non sono riusciti a salvarla». Sophie, racconta la famiglia, aveva rifiutato le cure che avrebbero potuto salvarla, convinta di poter affrontare tutto da sola. E proprio questa ostinazione, unita alla fragilità che la sua arte lasciava intravedere, l’ha condotta alla fine.

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